Nell’ultimo secolo, grazie alle teorie di diversi ricercatori nel campo della fisica (per primo Einstein), sappiamo che anche le sole aspettative dell’osservatore hanno la capacità di influenzare la realtà circostante e l’esito di un esperimento.
Nelle ricerche scientifiche, si cerca infatti di escludere la componente umana attraverso il “cieco” o “doppio cieco”: osservatore e/o osservato non devono conoscere gli obiettivi della ricerca.
Attraverso le emozioni, lo sguardo ed il colore della pelle apportano reazioni visibili che sembrano essere la prima forma di comunicazione sociale mai esistita, ancor prima del linguaggio.
Esse hanno origine da innumerevoli fattori sia interni (stato di salute, idee, ricordi…) che esterni (eventi, persone, luoghi…). Le emozioni sono in larghissima parte all’infuori del nostro controllo, sono di breve durata ed intense; i sentimenti hanno durata più lunga rispetto alle emozioni, sono più intime ed in genere meno evidenti fisicamente. In un certo qual modo quest’ultime possono subire il nostro controllo volontario.
La qualità di ciò che pensiamo, ciò che realmente “siamo dentro” ha inevitabili conseguenze (positive o negative che siano), sul nostro modo di stare al mondo e sulla qualità di vita.
Così come nel sintomo fisico, anche i sentimenti possono essere interpretati come segnali, o a volte veri e propri campanelli d’allarme: misure di emergenza che una volta compresa la causa potrebbero portare consapevolezza e migliore equilibrio: sono tantissime le storie e gli esempi di riscatto dove esperienze negative, difficoltà e dolore sono invece elementi necessari, utili per ritrovare la spinta motivazionale verso nuove scelte, sostituire vecchi comportamenti, ritrovare serenità e abbondanza: bisogna toccare il fondo per potersi rialzare, si sente spesso dire.
Dalla necessità di cura e di aiuto, la cura della mente occupa giustamente il suo ruolo di primaria importanza e di evidente interesse sociale. “Il peggiore dei sacrilegi è il ristagno del pensiero”. Fidel Castro
Anticamente, così come il dolore era attribuito all’influsso demoniaco, anche la pazzia aveva degli attributi soprannaturali. Nell’antica Roma, si pensava che le malattie mentali fossero l’espressione esteriore di dei che influenzavano l’agire dell’uomo. In seguito, Ippocrate identificò nel “ragionamento” dell’uomo la forza delle emozioni e dei sentimenti, attribuendo la malattia mentale ad una vera e propria intossicazione dell’intelletto, più individuale e meno dovuta a fattori esteriori e spirituali.
Già all’ora, tuttavia, si intuì come l’esercizio, il gioco, la musica, il dialogo, la lettura, la socialità, fossero utili e importantissimi ingredienti per migliorare le condizioni degli affetti, così come le intossicazioni (l’abuso di alcool), potessero influire negativamente sulla mente e sui pensieri.
Con Seneca, la visione filosofica della follia (attribuita all’ira) venne considerata una vera e propria malattia fisica, da curare in quanto “conseguenza di una salute debole”.
Galeno, rinforzò il ruolo fisico della mente-organo nello sviluppo della pazzia; colse tuttavia l’importanza delle abitudini e dell’ambiente, promuovendo rimedi fisici come salassi, bagni caldi e freddi, unguenti e purganti.
Come osservato nel capitolo precedente, fin dai suoi primordi la medicina psichiatrica cercò di analizzare il sintomo anche nel campo della mente e del pensiero.
La scienza medica oggi ha redatto ed etichettato innumerevoli sintomi, che fanno capo a patologie o disagi più o meno gravi e che si studiano nella branca della medicina psichiatrica. I trattamenti, i rimedi, a seconda dei casi, possono essere vari.
Partendo dal “semplice” colloquio completato da valutazioni ed esercizi (cura psicologica), abbiamo la cura farmacologica, fino ad arrivare ai casi più importanti dove il paziente può essere assistito in speciali istituti (Centro di Salute Mentale), dove fino a qualche anno fa si applicava, tra le tante, la terapia con l’elettricità.
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